4WuZHVegXm1cjf7tl8WGMqKqxE0 LA FIAMMA DEL PECCATO: marzo 2013

sabato 30 marzo 2013

Jennifer, Scarlett, Vanessa e le altre...

Il 2012 ha segnato in maniera indelebile l'exploit di Jennifer Lawrence. La neostar originaria del Kentucky a soli ventudue anni ha collezionato con Hunger Games un film capace di incassare più di 400 milioni di dollari solo in America, e con Silver Linings Playbook l'Oscar come miglior attrice protagonista, giunto addirittura alla seconda nomination dopo che la statuetta gli era stata (ingiustamente) negata due anni fa per Un gelido inverno.
Se il successo della Lawrence conferma il talento purissimo di un'attrice una spanna abbondante sopra alle altre colleghe della sua generazione, la nuova leva di interpreti sta facendo registrare però anche alcune clamorose battute d'arresto e altre evidenti involuzioni. Proviamo allora a tracciare una mappa delle "giovani" interpreti del cinema hollywoodiano odierno, valutandole in un borsino ideale e giocoso che ne mette in rilievo punti di forza e anche mancanze.



PROMOSSE


Jennifer Lawrence - Poteva essere altrimenti? E' la dominatrice assoluta degli ultimi mesi di cinema mondiale. E' riuscita a riempire con profondità e umanità il ruolo di Katniss Everdeen in uno "young adult" finalmente riuscito come Hunger Games. La statuetta per Il lato positivo è ineccepibile. Tosta, sensuale, soprattutto talentuosa. Impossibile negare sia lei la nuova reginetta di Hollywood. Con pieno merito.






Rooney Mara - Lisbeth Salander in Millennium di David Fincher era un ruolo di rottura, fortemente connotato, quindi in un certo senso anche più "facile" da riempire. Sono arrivati meritatamente la notorietà e il successo internazionale. La conferma della sua bravura in Side Effects di Soderbergh è stata quindi quasi più sorprendente. Rooney è uno scricciolo dal vivo, forse non potrà coprire ogni tipo di ruolo, ma quando a talento non pare poter essere messa in discussione. Adesso le toccano poi Terrence Malick e Spike Jonze, due magnifiche scommesse.





Scarlett Johansson - Dopo qualche anno di crisi d'identità, il passaggio da "reginetta" del cinema indipendente e intellettuale a diva da grande pubblico è arrivato con indubbia efficacia. The Avengers ha sbancato i botteghini di tutto il mondo e messo in mostra una Vedova Nera tagliente e supersexy. Scarlett ha cambiato pelle, è più adulta, ma ugualmente conturbante. Bentornata!




Vanessa Hudgens - La promozione arriva in extremis, più per le intenzioni che per l'effettiva qualità dei film a cui partecipa. Perché la bella Vanessa poteva restarsene dentro la carriera "sicura" di stellina per famiglie made in Disney, e invece ha scelto alcuni prodotti più difficili come Sucker Punch e soprattutto il recente Spring Breakers di Harmony Korine. Per me due film sbagliati, ma lei ne esce bene. Eccome...




RIMANDATE

Saoirse Ronan - A livello di talento negli anni passati ne ha messo in mostra moltissimo. La candidatura all'Oscar ottenuta per Espiazione andava assolutamente bissata con Amabili resti, ma quell'anno c'era da spingere la sopravvalutata Carey Mulligan. Il problema della Ronan è quello delle attrici troppo giovani: sta diventando ragazza, cambiando fisionomia, e si sta confrontando col cinema fatto per il grande pubblico con The Host. L'impatto non è stato eccelso: in un personaggio potenzialmente notevole ma scritto malissimo lei non incide. Colpa solo del film? Staremo a vedere. Anche in Byzantium, anche se più efficace, non brilla comunque come in passato... 



Emma Stone - La novità più frizzante degli ultimi dieci anni. Piccolo grande genio di comicità aggressiva in Suxbad e Easy Girl, gioiosa anche in Crazy, Stupid Love. Il passaggio ad altri genere ne ha però evidenziato i limiti: sufficiente ma niente più in The Amazing Spider-Man, inefficace in Gangster Squad: non è una dark lady, difficilmente lo diventerà mai, meglio evitare in futuro ruoli da femme fatale e tornare su terreni più consoni. Poi a mio avviso rossa spaccava, bionda molto meno...





Mila Kunis - Dove è finita la carica erotica e conturbante de Il cigno nero? In Friends With Benefits e Ted è andata del tutto scomparsa. Rimane la simpatia, ma quanto a doti d'attrice siamo ahinoi di nuovo alla ricerca...Specchio del momento indivago della Kunis è l'ultimo Il grande e potente Oz: pessima nella parima parte, vigorosa e entusiamante quando le viene in aiuto il personaggio della Strega Cattiva. Chi sei allora Mila? Speriamo di capirlo presto.

Carey Mulligan - Lo ammetto senza mezzi termini: a me non convince. In An Education faceva il compitino, non l'avrei candidata all'Oscar neppure sotto tortura. Osannata ingiustamente anche per Shame e Non lasciarmi, dove a dire il vero non sfigurava più di tanto. Perché allora non è nella lista delle bocciate? Soltanto per Drive, dove stava proprio bene in un ruolo che doveva trasudare innocenza e fragilità. Perché la Mulligan a me pare poter fare solo questo, poco altro. Aspettiamo Il grande Gatsby di Baz Luhrmann, e vedremo quanto  mi sbaglio su di lei.




Amanda Seyfried - Stesso identico discorso fatto per la Mulligan. Il film che per il momento l'ha salvata è stato Les Misérables, dove non sfigura di fronte a quel cotanto di cast e interpretazioni. Non era facile. Poi la burrosa Amanda (finalmente qualche curva seria!) ha una dote naturale: dal vivo è molto più sexy che sul grande schermo. Strano, eh? L'ho incontrata per il film di Hooper. Ha lasciato il segno.








BOCCIATE

Kristen Stewart - Ogni volta che me la ricordo nelle poche scene di Into the Wild scoppio in lacrime. Tradimento, altro tradimento! Si è infilata nel successo facile e semplicistico di Twilight e ha a mio avviso abbandonato un percorso di crescita artistica che sarebbe stato necessario. I film più piccoli fatti in questi anni evidenziano una mancanza di espressività disarmanete, non è solo colpa dei vampiri luccicherelli e dei cucciolini di lupo mannaro...La delusione più grande del nuovo millennio.





Teresa Palmer - Avevano provato a lanciarla con L'apprendista stregone. Chi si ricorda quello sci-fi movie? Appunto...Ci hanno riprovato, stavolta sul serio, in Warm Bodies: male perdio, male...Come interprete era meno espressiva dei non-morti, come avvenenza mi pare una bionda da cartolina prestampata. Siamo già al capolina dei riflettori per l'australiana?







Blake Lively - L'estetica è un conto, il sex appeal tutt'altro. Per me la Lively è la più efficace attrice-copertina contemporanea, ogni volta chela vedo su un magazine mi stropiccio gli occhi. Poi vado in sala e rimango basito dalla piattezza, dall'incapacità di bucare lo schermo. Riguardatevi Le belve o Lanterna Verde e poi ditemi se non è vero. Meglio in versione "maledetta" in The Town, ma a conti fatti non un'interpretazione che ti impreziosisce una carriera fino ad ora a dir poco floscia...





Keira Knightley - Almeno si impegna molto, di più non riesco a dire. Anche lei mi pare uno dei grandi fraintendimenti del cinema contemporaneo: in ruoli simpatici e discretamente leggeri può magari anche funzionare, ma per favore tenetela lontana dai drammi e da film di un certo peso. Il personaggio di Anna Karenina l'ha schiacciata, non aveva né il fisico né le capacità per reggerlo. Occorre un repentino ridimensionamento cara Keira... 






Megan Fox -Alla fine si è rivalata quel che temevo: pura fuffa. Un corpo avvenente, un volto stupendo da gettare al fianco di Megatron e altri robottoni. Poi però il niente. Oh, io la carriera della Fox fuori dalla trilogia dei Transformers proprio non me la ricordo! Oltretutto, anche in quanto a bellezza è in netta discesa: colpa di qualche intervento estetico a dir poco inappropriato? Bah...






Non ho inserito nella lista una grande quantità di giovani attrici su cui mi riservo ancora un giudizio preciso. Se pensate ne abbia mancata qualcuna degna di segnalazione scrivetemi che aggiorniamo il post.


 

 



giovedì 28 marzo 2013

La musica del cuore - James Newton Howard

Da compositore dalla carriera piuttosto anonima a mio musicista preferito. Se oggi esce un film la cui colonna sonora è stata composta da James Newton Howard, io un occhio d'attenzione in più al al prodotto lo getto.
Ma come è entrato questo sessantunenne losangelino nella mia lista musicale del cuore? Semplicemente trovando una collaborazione artistica che gli ha permesso di esprimere la propria sensibilità . Sto parlando ovviamente delle partiture che ha composto per i film di M. Night Shyamalan. Attivo fin dalla metà degli anni '80, alle mie orecchie si era fatto notare in precedenza soltanto per Il principe delle maree di Barbra Streisand, film per il quale ha ottenuto la prima delle sue otto nomination all'Oscar.
Dopo la prima collaborazione avvenuta con Shyamalan nel 1999 con The Sixth Sense, la mia personale svolta artistica arriva nel 2004 con The Village, colonna sonora in cui la malinconia portata dall'uso elegante e intenso degli archi ha regalato al film una cornice sonora di efficacia impagabile. A mio avviso anche per James Newton Howard quello è stato un film di svolta, in quanto da quel momento le sue musiche hanno cominciato ad essere improntate su uno stile decisamente più personale e riconoscibile, pur appoggiandosi molto spesso a prodotti filmici di puro intrattenimento.
E il suo capolavoro sonoro? Per me non c'è alcun dubbio: si trata di The Healing (il brano l'ho linkato in fondo la pezzo), eseguito per la partitura del sottovalutatissimo Lady in the Water. Da quella scena, precismanete il salvataggio della "musa" Bryce Dallas Howard da parte di un grandissimo Paul Giamatti, il compositore è diventato colui che accompagna la mia voglia di musica elegante e capace di scuotere l'animo umano.
Altre collaborazioni eccellenti? Michael Mann per Collateral, Peter Jackson per King Kong, Christopher Nolan per Batman Begins e Il cavaliere oscuro, più recentemente la bella colonna sonora di Hunger Games. Vi basta per ammirarlo? Lo penso proprio. Altrimenti ascoltate il brano che segue, e "ascolterete" di cosa vi ho scritto fino ad ora...

James Newton Howard, Lady in the Water soundtrack - The Healing


domenica 24 marzo 2013

La casa (Evil Dead) - Gore As I Wanna Be!!!



Voto 7/10

Così andrebbero fatti i remake!
Si comprende lo spirito dell'originale e si tenta di riproporne l'essenza, aggiornata per quanto possibile alle dinamiche del cinema contemporaneo. Cosa aveva di speciale il mitico La casa (Evil Dead) di Sam Raimi? La vena iconoclasta, la ruvidezza vitale del gore, la fantasia nell'uso smodato dei effetti speciali baroccamente artigianali. Se pensiamo che tra la fine degli ani '70 e l'inizio degli '80 il cinema fantastico aveva prodotto le innovazioni visive di George Lucas e Steven Spielberg, e ancora prima proprio l'horror aveva trovato la sua sacrisanta glorificazione "alta" con L'esorcista di William Friedkin, gli effettacci alla salsa di pomodoro e purea di patate di Sam Raimi hanno rappresentato davvero una fiammata di anarchia dell'immagine. L'horror riportato al B-movie, libero da condizionamenti produttivi, anzi stimolato a sperimentare.
L'uruguaino Fede Alvarez sapeva benissimo di non poter competere con il capolavoro originale, allora ha scelto di restituirne con intelligenza il succo: in un'epoca in cui il CGI ha ormai sostituito definitivamente i "vecchi" f/x anche nell'horror - ma in molti casi a mio avviso ancora non ne è riuscito a riprodurre la consistenza - Alvarez è tornato al trucco classico, ancora una volta perfetto ed efficacissimo quando ci si deve immergere nel gore. Il risultato è denso, sfrontatamente sanguigno.
Per il resto attenzione alle coordinate del passato, per carità, ma non ossequioso e sterile ricalco. Ecco quindi che lo spettatore sa benissimo di trovarsi dentro i luoghi già esplorati ed amati di un tempo, ma ci arriva attravrso strade nuove e una trama più costruita. Non potendo puntare sulla novità si cerca l'efficacia dell'effetto, e in molti casi si fa centro: Evil Dead ha una prima parte ben ritmata, tesa e in un paio di momenti genuinamente spaventosa. Dopo qualche passaggio a vuoto negli snodi narrativi poi si lancia verso il finale eplicitamente gore, senza paura alcuna di spendere a livello viviso quanto il genere può ancora dare. Il risultato è frizzante, non innovativo ma almeno non è raccapricciante per il solo (gratuito) gusto di esserlo, nello stile inerme dei vari Saw o Hostel.
L'equilibrio trovato tra gli stilemi conclamati del primo La casa e la volontà di farne un film di genere diverso e (perché no?) personale è il punto forte del film di Alvarez. I cambiamenti non sono semplice desiderio di distaccarsi ma vengono inseriti con discreta intelligenza in una nuova impalcatura narrativa. Merito probabilmente anche della collaborazione alla sceneggiatura di Diablo Cody: non penso sia un caso lo spostamento degli equilibri dinamici dal primo film quasi tutto al maschile alla delineazione molto più femminile di questo nuovo. A proposito, brava Jane Levy! Ci voleva vero coraggio a passare dalle atmosfere giovanili di Suburgatory alla violenza anche concettuale del personaggio di Mia. Una bella sorpresa.
Questo dunque è il nuovo Evil Dead: ci si diverte, si salta in qualche occasione sulla poltrona e alla fine si digrignano i denti di fronte all'ondata di sangue che investe tutto e tutti.
E' questo l'horror che funziona! O sbaglio?

Il film uscirà il prossimo 9 maggio in Italia, distribuito dalla Warner Bros



venerdì 22 marzo 2013

The Host - Sia pure alieno, ma mai alienato.



Voto: 4/10

Ero ahimé quasi sicuro che avrei dovuto riprendere il discorso fatto con Twilight. In questo caso comunque ribadire il concetto mi sembra quantomai importante. Repetita juvant.
La fondamentale forza propositiva del miglior horror e di molto cinema fantastico più in generale è stata quella di costringere il pubblico al contatto forzato con l'antagonista, un figura qussi sempre negativa o comunque differente dal comune essere umano e dalle sue regole civili e morali. Attraverso la messa in scena polimorfa del concetto malleabile di "Male" lo spettatore quasi per contrappasso poteva un tempo definire i confini tra giusto e sbagliato, buono e cattivo. In sostanza poteva operare delle distinzioni dopo essere venuto a contatto con qualcosa di estraneo alla sua filosofia. Ciò avveniva in ogni caso dopo un salutare confronto con "l'altro", in cui si stabilivano dei confini che servivano anche per una migliore definizione del proprio io.
La domanda che mi pongo è la seguente: se al pubblico più giovane adesso viene proposta la figura di vampiro che si differenzia dall'umano soltanto perché brilla al sole, oppure quella di un alieno che ha come unico tratto distintivo degli sfavillanti occhi azzurri, quale salutare confronto sarà mai possibile?

L'omologazione a standard innocui di qualsiasi possibile contraddittorio era la cosa peggiore che imputavo a Twilight, e The Host segue purtroppo la stessa linea di principio.
Anche se, questo va scritto a onor del vero, stavolta sarei maggiormente propenso ad incolpare lo sceneggiatore/regista Andrew Niccol che la scrittrice Stephenie Meyer. Un'esperta di letteratura "young adult" come la mia amica Kimberley Ross, anche lei presente alla proiezione del film, mi ha confermato che il romanzo stavolta problematizza con ben altra forza rispetto alla sua deludente trasposizione cinematografica. Perché in effetti - fattore per me del tutto sorprendente - nella prima mezz'ora The Host propone spunti di riflessione morali e filosofici del tutto sconosciuti alla saga di Edward e Bella: il libero arbitrio, la dualità dell'animo umano, la distinzione tra bene comune e necessità del singolo sono questioni che vengono più o meno esplicitamente tirate in ballo. Poi però il film per l'eccessiva preoccupazione di ingraziarsi il pubblico giovane facilitandogli il più possibile qualsiasi discorso, inizia a banalizzare tutto con scene superificiali e un uso criminale della voce interiore della protagonista Melanie. Se Niccol avesse ridotto almeno del 75% tale inutile senquenza di sottolineature, The Host sarebbe stato un film nettamente migliore. Altra questione: basta col telefonato triangolo amoroso se non è necessario allo sviluppo narrativo! Anche in questo caso poi la sottotrama romantica porta a delle scene di comicità gratuita, proprio come era successo con Twilight. I due protagonisti maschili del film, Max Irons e Jake Abel, sembrano inseriti nella storia quasi solo per limonare a turno con Melanie e ia suo alter-ego alieno. Alla faccia appunto del romanticismo...

Passando alla valutazione delle qualità più propriamente estetiche di The Host, la cosa migliore sono senza dubbio le belle musiche del brasiliano Antonio Pinto, le quali accostate alle fascinose immagini del deserto creano uno stridore originale, a tratti addirittura poetico. Il resto è una riproposizione scenografica abbastanza stantìa di quanto il cinema di fantascienza abbinato all'utopia negativa ci ha già mostrato negli ultimi trent'anni. Niccol, cineasta che ogni tanto tira fuori qualche perla di finezza - Lord of War, la sceneggiatura di The Truman Show - ma che nella maggior parte dei casi ritengo sopravvalutato, avrebbe dovuto riguardasi con molta attenzione parecchi film che trattano con ben altra efficacia tematiche simili, su tutti il grande Essi vivono di John Carpenter.
Ultima, veloce considerazione sugli attori: William Hurt ancora oggi impreziosisce ogni singolo fotogramma in cui compare. Saoirse Ronan crescendo sembra aver parzialmente perso la freschezza e il notevole talento messo in mostra in Espiazione e Amabili resti. Le rimane comunque una discreta presenza scenica, ma da lei ci aspettiamo ben altre conferme da vera attrice.

Il trailer di The Host

mercoledì 20 marzo 2013

Most Wanted: Katheryn Winnick e Jane Levy

Parliamo oggi di due attrici emergenti che a mio avviso meritano segnalazione. Radicalmente differenti tra loro, sia nell'aspetto che nel tipo di percorso professionale che si stanno costruendo, Katheryn Winnick e Jane Levy mi paiono però accomunate dalla volontà di confrontarsi con generi e produzioni differenti, mostrando se non già abilità d'attrici consumate, almeno una discreta dose di versatilità.

La Winnick la seguo da parecchio tempo perché anni fa è stata protagonista di una delle più belle puntate di House M.D., esattamente One Day, One Room (Stagione 3, episodio 12). Straziato da quei quaranta minuti di grande televisione, mi sono affezionato all'attrice - probabilmente hanno contribuito anche le sue doti estetiche, inutile nasconderlo... - e ne ho seguito una carriera che finalmente inizia a decollare. Ultimamente infatti l'ho rivista con piacere accanto ad Al Pacino, Alan Arkin e Christopher Walken in un paio di scene di Stand Up Guys, e nello strampalato film di Roman Coppola A Glimpse Inside the World of Charles Swann III. Dove però la sto finalmente ammirando come protagonista, imbronciata e combattiva anzichenò, è nella serie TV Vikings, che va in onda in America su History Channel. Dopo sole quattro puntate posso dire che la presenza scenica di Katheryn è senz'altro una delle cose migliori della produzione, anche in un personaggio che deve ancora trovare una sua dimensione precisa.

Tutt'altro percorso invece pare in procinto di fare la rossa Jane Levy: volto simpatico, aria sbarazzina e adolescenziale, la ventitreenne attrice californiana si è imposta all'attenzione degli spettatori del piccolo schermo con Suburgatory, sit-com dove era senz'altro al cosa più fresca e interessante. Dopo una commediola giovanile per il cinema come Fun Size, l'attrice ha deciso di compiere un salto piuttosto vertiginoso e partecipare al remake del cult horror Evil Dead. Ho avuto il piacere di intervistarla allo scorso Comic-Con di New York lo scorso ottobre, e il modo in cui mi ha parlato del film lascia presagire che sia stata un'esperienza davvero provante a livello emotivo. Il trailer del film promette davvero bene per gli appassionati del genere.

Se dunque dovessi scegliere quelli che saranno i volti nuovi del 2013, penso che terrei d'occhio quelli di Katheryn Winnick e Jane Levy. Il responso del pubblico ci dirà se si tratta di talenti realmente emergenti o di meteore destinate a durare il bagliore di qualche settimana. Staremo a vedere.










martedì 19 marzo 2013

Ai miei tempi, quando c'erano House e gli altri...

Stamattina mi sono svegliato con una constatazione amarissima: tra pochi mesi anche Breaking Bad finirà. Dovrò relegare nel cassetto delle serie TV del passato anche uno dei miei personaggi-idolo, Walter White/Mr. Heisenberg. Non una bella sensazione. Proprio no.
Mentre mi stavo preparando un caffè più triste del solito, piegato sotto il peso della certezza che tutto finisce (tranquilli, di solito la mattina mi sveglio con uno spirito più positivo...) ho iniziato a fare una piccola lista delle figure magnifiche che la TV degli ultimi anni ci ha regalato. Personaggi differenti tra loro ma accomunati dalla capacità di arrivare al cuore del pubblico, anche (anzi, forse soprattutto) coi loro difetti.
Alcuni lettodi di questo post penseranno: "Che lagna, la solita dietrologia dei critici sempre scontenti!". So benissimo che anche oggi ci sono serie TV molto interessanti, che propongono ruoli e caratteri di indubbio spessore. Penso a Mad Men, Game of Thrones, The Big Gang Theory, The Walking Dead e altre ancora, inutile nominarle tutte. Il fatto è che, sarà perché ormai le figure di cui parlo sono state regalate alla storia e hanno quindi assunto un sapore nostalgico dolcissimo, ma secondo me rispetto a qualche anno fa anche le produzioni TV stanno risentendo di un leggero calo rispetto alla scrittura "adulta" e raffinata che ha contraddistinto il periodo a cavallo tra i due millenni. Un esempio su tutti: la prima stagione di The Newsroom, ultima produzione targata Aaron Sorkin (per me IL genio della scrittura contemporanea), pur con alcuni episodi notevolissimi è decisamente inferiore ai suoi precedenti lavori come The West Wing o Studio 60 on the Sunset Strip. Soltanto un caso? Possibile. Ma potrebbe anche essere un indizio sintomatico che oggi la capacità di analisi dei caratteri e di costruzione narrativa è un po' meno efficace.
Su tutti i grandi del passato - e non poteva essere altrimenti - svetta ovviamente Gregory House, la figura in chiaroscuro che a mio avviso ha cambiato il modo di scrivere il carattere dei protagonisti nella TV americana. Ma ce ne sono molti altri che mi mancano quanto lo Sherlock della medicina intepretato da Hugh Laurie.
Eccovi una carrellata di quelli che maggiormente mi hanno emozionato. Sicuramente ne avrò dimenticati di altrettanti meritevoli, segnalatemi i vostri preferiti.
L'ordine è casuale, dettato dai ricordi che riaffionaro: noi critici "attempati" abbiamo una memoria ballerina...

P.S. - Non ho inserito il Jason Bateman/Michael Bluth di Arrested Development perché ho letto che a breve dovrebbe arrivare una quarta stagione. Attesa come poche cose dal sottoscritto.




Hugh Laurie/Gregory House in House M.D. (2004-2012)













 Richard Schiff/Toby Ziegler in The West Wing (1999-2006)















Kyle Chandler/Eric Taylor in Friday Night Lights (2006-2011)











Evangeline Lilly/Kate Austen in Lost (2004-2010)















Allison Janney/ C.J. Cregg in The West Wing (1999-2006)











Michael Chicklis/Vic Mackie in The Shield (2002-2008)















Dominic West/Jimmy McNulty in The Wire (2002-2008)












Zach Gilford/Matt Saracen in Friday Night Lights (2006-2011)











Ian McShane/Al Swearengen in Deadwood (2004-2006)













Peter Krause/Nate Fisher in Six Feet Under (2001-2005)















Zach Braff/ John "J.D." Dorian in Scrubs (2001-2010)












Bradley Whitford/Danny Tripp e Matthew Perry/Matt Albie 
in Studio 60 on the Sunset Strip (2006)


lunedì 18 marzo 2013

Anteprima: Winter's Tale e il fascino dell'antica New York

Parliamo anche di un po' di (grande) cinema che verrà.
A New York stanno attualmente girando quello che secondo me sarà uno dei film-evento del 2013. Sto parlando dell'esordio alla regia di Akiva Goldsman, uno degli sceneggiatori più ricercati da Hollywood, premio Oscar per A Beautiful Mind di Ron Howard e autore dello script di parecchi altri blockbuster.
Tratto dall'omonimo romanzo pubblicato da Mark Helprin nel 1983 (in Italia è stato tradotto? Non credo), Winter's Tale è ambientato nella New York dell'epoca vittoriana, a cavallo tra XIX e XX secolo. Protagonista della storia è Peter Lake, ladro perennemente in fuga dal suo acerrimo nemico Pearly Soames, capo della gang più potente della città, gli Short Tails. A complicare le cose per lo small time crook arriva l'amore per la bella e fragilissima Beverly Penn. Tra ambientazione d'epoca e una trama che sconfina anche nel fantastico (meglio non rivelare nulla per evitare spoiler irritanti) Winter's Tale promette lo spettacolo della messa in scena newyorkese d'epoca - la fotografia è di un grande come Caleb Deschanel - e l'emozione delle grandi love-story.
Il cast d'attori è impressionante: Peter Lake ha il volto di Colin Farrell, Pearly Somes la fisicità e il carisma di Russell Crowe, mentre per la protagonista femminile Beverly è stata scelta Jessica Brown Findlay, una delle attrici-rivelazione della serie TV Downton Abbey. A completare il gruppo di star Jennifer Connelly, Matt Bomer, William Hurt, Kevin Durand, Kevin Corrigan, una leggenda vivente come Eva Marie Saint (ve la ricordate grandissima in Fronte del porto?) e addirittura Will Smith, che dovrebbe avere un ruolo ancora non annunciato ma che potrebbe essere  quello di Loyal Blacky Womble, il braccio destro di Pearly Soames.
Per prepararmi all'evento ho comprato il romazo di Helprin. Fino ad ora ne lo lette poche pagine, non posso dare un giudizio definitivo ma l'incipt è davvero impressionante, incentrato su un misterioso cavallo bianco che una mattina all'alba, in in piccolo porto nella parte sud di Manhattan, salva Peter Lake dalle grindie degli Short Tails e lega per sempre il suo destino a quello del protagonista.
Personalmente, non vedo l'ora di vedere in sala Winter's Tale...

Io sono molto ma molto elettrizzato...

sabato 16 marzo 2013

L'inganno e l'etica: The Incredible Burt Wonderstone



Voto 6/10

Nella maggior parte dei casi i film che hanno come protagonista la magia riflettono sulla responsabilità della dissimulazione. Penso ad esempio a grandi film come The Prestige di Christopher Nolan, oppure Ombre e nebbia di Woody Allen. Recentemente  l'ha fatto con grande finezza Il grande e potente Oz, e lo fa in maniera interessante anche The Incredible Burt Wonderstone.
Per ingannare il pubblico, per proporgli uno spettacolo che lo costringa a distorcere anche per un solo istante il senso della realtà, serve un codice morale. Quello che conta è rispettare chi si ha di fronte, garantendogli divertimento e stupore, veicolando però allo stesso tempo queste emozioni attraverso dei valori comunque positivi. Il film diretto da Don Scardino ha l'intelligenza portare avanti questo discorso in maniera piuttosto intrigante, grazie al rapporto d'amicizia tra Wonderstone e il suo trentennale partner Anton Marvelton, ma soprattutto attraverso la rivalità con l'astro nascente della magia Steve Gray, dissimulatore che invece va incontro al gusto sadico e ambiguamente voyeuristico delle folle.
Dietro la facciata della commedia ridanciana ecco che la riflessione su cosa significhi oggi fare spettacolo si rivela più profonda e sfaccettata di quanto ci si potesse aspettare da un prodotto del genere. Anche la sequenza finale propone degli spunti bizzarri sulla "disponibilità" del pubblico a farsi ingannare da chi lo fa per professione.
The Incredible Burt Wonderstone sarebbe stato un film molto più riuscito se non si fosse concesso qualche scappatoia comica troppo facile, e alcuni momenti in cui le scene sono buttate a casaccio senza rispettare una trama ben organizzata. Scardino mette in scena il film senza infamia né lode, sbagliando i tempi e (stranamente) le luci di qualche sequenza ma trovando anche alcuni picchi molto frizzanti. Steve Carell non mi ha convinto del tutto, lo preferisco di gran lunga quando si prende un po' più sul serio e lavora sul lato malinconico del suo "tipo fisso". Una goduria assoluta sono i momenti in cui è davanti alla macchina da presa Alan Arkin, genio assoluto dell'arte della comicità. E finalmente anche Olivia Wilde, oltre al più bel volto dell'odierno panorama cinematografico americano, inizia a lasciar trasparire qualche indizio che potrebbe essere una vera attrice.




giovedì 14 marzo 2013

Se vuoi far ridere i Coen raccontagli i tuoi progetti...

Attenzione, spoiler su Non è un paese per vecchi (No Country For Old Men, 2007)

La logica è sopravvalutata.
Potrà anche renderci superiori alle altre razze animali ma non è neppure lontanamente sufficiente a consentirci di dominare il mondo che ci circonda.
L'essere umano può essere intelligente quanto vuole (e nella maggior parte dei casi non lo è...): la vita è regolata dal caso, impossibile da predirre e pericolosissimo quando si tenta di sfidarlo.
Queste considerazioni, non mie ma che mi sento in fondo di appoggiare, mi sono ancora una volta arrivate addosso come un macigno grazie all'ennesima visione di Non è un paese per vecchi, film di frontiera che ormai non riguardavo da almeno un paio d'anni.
Asciugata la solita, corrosiva ironia propria del cinema di Joel e Ethan Coen - che erroneamente avevo trovato anche in questo film alla prima visione al Festival di Cannes - rimane come sempre il loro discorso filosofico senza dubbio nichilista, ma non totalmente pessimista.
Riflettiamo un attimo sullo schema narrativo di Non è un paese per vecchi: il protagonista Llewellyn Moss si trova improvvisamente tra le mani la possibilità di fuggire dalla sua vita insoddisfacente. Il piano che escogita per vincere il jackpot e tirarsi fuori dai guai è intelligente, funzionale, applicato con rigore. Eppure non funziona, perché le varianti imprevedibili sono talmente tante che è impossibile fronteggiarle tutte. Il Destino (o come volete chiamarlo) in questo caso sembra avere un volto specifico e spaventoso, quello di Anton Chigurgh. Ma ai Coen questa impersonificazione non basta: non sarà neppure il killer pazzoide a mettere fine alla fuga inutile di Moss, e anch'egli addirittura rischierà di soccombere a un Fato ancora più grande, come racconta con soave schizofrenia la scena finale del film, quella dell'incidente d'auto.
Questa poetica è presente nel cinema di Joel e Ethan Coen fin dall'esordio clamoroso di Blood Simple. Pensate a ogni loro singolo film e vi troverete un personaggio ("candido" o meno) che ha la presunzione di un piano preciso per riuscire in un compito, e che poi lo vede miseramente sgretolarsi sotto le proprie mani. In molti di questi casi poi tale piano è addirittura criminale, quasi a sottolineare l'insensatezza e l'errore del voler costruire schemi logici in un universo/caos/vuoto presente apposta per deriderli.
Personalmente considero l'adattamento dal romanzo di Cormack McCarthy uno dei più riusciti non solo nella filmografia dei Coen, ma dell'intera storia del cinema, e per un motivo specifico: nelle pagine scritte si percepisce il rammarico per un mondo in cui i valori di un tempo, fondanti per una società retta su leggi umane, sono scomparsi. La grandezza del film è che questi stessi valori, in sintonia con l'idea che i Coen portano avanti da sempre, non sono mai esistiti. Lo scarto concettuale è sottile ma potentissimo, e probabilmente soltanto loro tra gli autori contemporanei potevano renderlo così efficace.
Cosa può fare dunque l'essere umano per non soccombere di fronte alla totale mancanza di senso?
Non è un paese per vecchi ci indica due strade: combattere e soccombere come fa Llewellyn Moss, oppure accettare la sconfitta e tentare di andare avanti consci della propria finitezza, come fa lo sceriffo Tom Bell. "Non puoi fermare quello che sta arrivando, non dipende tutto da te. E' semplice vanità" sentenzia alla fine del film il vecchio zio di fronte ai dubbi dell'uomo di legge.
Per i Coen l'alternativa alla catastrofe è probabilmente la saggezza semplice ma efficace di chi non fa piani, ma vive giorno per giorno trovando il senso nel presente. Penso a Drugo Lebowski come alla Marge di Fargo. Se non credi di poter fregare il destino, almeno hai buone possibilità di sopravvivere. Non sarà il discorso cinematografico più edificante da seguire, ma il modo in cui Joel e Ethan Coen me l'hanno propinato in quasi trent'anni di carriera me l'ha fatto ammirare come pochissimi altri.





lunedì 11 marzo 2013

Oz, ovvero quello che non possiamo più vedere...



Voto 8/10

Distinto Signor Sam Raimi,
lei è un dannato geniaccio.
Il cinema di genere ha sempre saputo farlo, anche nelle sue opere meno riuscite.
Con Pronti a morire in particolar modo aveva anche lasciato intuire di poterlo omaggiare a modo suo.
Adesso con Il grande e potente Oz ha dimostrato di conoscerne ed amarne la storia.
Più di tutto però, e di questo al suo ultimo lavoro sarò eternamente grato, ha capito dove andare a cercare quello che a noi spettatori ormai troppo smaliziati un po' comincia a mancare: l'emozione legata alla sorpresa.
Grazie al digitale ormai sul grande schermo abbiamo visto praticamente tutto. Non penso esistano mondi immaginari che possano ancora rappresentare un momento di reale stupore per il pubblico che mediamente si accosta al fantastico. Dopo Matrix, Il Signore degli Anelli, Avatar, dopo il prodigio del 48fps de Lo Hobbit cos'altro può regalarci quel piccolo ma prezioso sentore di novità dello sguardo?
Raimi ci risponde con grande raffinatezza: la semplicità e la tradizione. Quali sono i momenti più emozionanti de Il grande e potente Oz? Non certo i paesaggi fantasmagorici, i setting spettacolari o gli effetti speciali funambolici. No, quelli come detto possiamo trovarne a carrettate in almeno una mezza dozzina di blockbuster hollywoodiani a stagione.
Una piccola, semplicissima bambolina di porcellana che parla e soffre come una qualsiasi bambina. Il bianco e nero del cinema degli albori. Il male che si manifesta attraverso la sua ombra proiettata sul muro. E poi, finalmente, la storia del cinema che esplode quando arriva la Strega Cattiva. Ecco da dove arriva lo stupore. E con esso il sentimento.
Raimi lavora con grande intelligenza sui dettagli, sulla coerenza interna a un prodotto che inevitabilmente avrebbe dovuto rimandare al tempo che fu. Evita il ricalco, si tiene lontano dalla ricerca inutile dell'effetto roboante, e si dedica invece a cercare appigli, spunti, riflessioni anche sorprendenti su cosa veramente significa emozione al cinema. In più di un'occasione Il grande e potente Oz è metafora, specchio, riflessione su cosa significhi incantare lo sguardo, e anche sulla responsabilità che tale potere comporta. A volerne scandagliare in profondità alcuni sottotesti, forse è addirittura un film che indaga la gestione del potere mediatico all'interno del sistema democratico occidentale (o della sua reale mancanza).
Il tocco cinefilo e veramente da inchino che però Sam Raimi ha pennellato in questo film è la gestione degli attori, che ha scelto di far recitare come si faceva una volta: non cercando la naturalezza ma al contrario l'eleganza, l'ironia, l'istrionismo controllato. A me il cast ha fatto venire in mente le commedie brillanti degli anni '40, quelle di Cuckor e Capra tanto per intenderci. James Franco, Michelle Williams e Rachel Weisz hanno risposto magnificamente, l'attore protagonista finalmente mi ha sorpreso in positivo. Mila Kunis è l'unica che all'inizio proprio mi è parsa non capirci nulla, salvo poi diventare il mito fondante di Oz.
Se non fosse per qualche lentezza e lungaggine nella prima parte, Il grande e potente Oz sarebbe stato  da 9/10. E' un film acutissimo, sfrontato, arioso. E' cinema fantastico che sa dove cercare il contatto col pubblico, sfrutta senza ruffianeria le coordinate già imposte all'immaginario collettivo e le ripropone rimostrandone il cuore pulsante. Bello ma bello.
E nuovo.

domenica 10 marzo 2013

Cult trash - John Dies at the End

Lo ammetto, sono andato a vedermi questo film soltanto perché vi recitava Paul Giamatti, uno dei miei attori-feticcio.
Conoscevo la fama di Don Coscarelli presso gli amanti dell'horror, ma non ho mai visto altri suoi film come ad esempio i due cult Phantasm e Bubba Ho-Tep. Credo prorpio che adesso rimedierò a questa lacuna...
Sapevo dunque che più o meno mi sarei trovato di fronte a uno splatter dallo smaccato gusto nonsense, ma onestamente non mi aspettavo tale leggerezza (anzi, leggiadria) nel padroneggiare la materia trattata. Coscarelli non esita minimamente a infarcire il suo film con ogni trovata che gli passa per la testa, fregandosene beatamente del budget contenuto, degli effetti speciali grossolani, dei voli pindarici che la storia prende in più di un'occasione. Lui va avanti navigando a braccio, gira in piena libertà creativa e con un gusto per l'assurdo davvero impressionante. Non c'è l'espressionismo gore del primo Sam Raimi, non c'è la stilizzazione del primo Carpenter, eppure John Dies at the End possiede la sfrontata freschezza di un esordiente, o meglio di un cineasta che si diverte come un pazzo. Sembra di essere tornati a quella brutale vena creativa che il genere possedeva tra la fine degli anni '70 e l'inizio degli '80, quella di Carpenter e Raimi appunto. Inutile cercare un senso all'operazione, perché la vera forza del film sta proprio non non possederlo, nel girare a vuoto per scene intere in totale anarchia, e poi magari all'improvviso riallacciarsi a una trama sottilissima come se niente fosse. "Ma chi se ne frega?" Sembra dirci Coscarelli. Siamo nel campo del fantastico, tutto può accadere. Se volete trovare una logica andatevene a vedere altri film. E invece noi si rimane attaccati a Jon Dies at the End, ce lo gustiamo soprattutto per le sue pecche esibite con irriverente faccia tosta. Ci sono zombie, demoni, esperimenti folli, salsicce assassine, una pericolossima salsa di soia e chi più ne ha più ne metta. Va bene così, vediamo dive ci porta la corrente dell'horror.
Se non siete amanti del cinema trash, splatter o demenziale non cercherò di vendervi il film di Coscarelli, sarebbe impossibile. Però contate che neppure io sono un fan di questo tipo di produzioni, tutt'altro. Eppure John Dies at the End me lo sono goduto contro ogni previsione. In Italia in sala non uscirà mai, quindi se vi ho incuriosito magari cercate di acquistarne una copia in DVD o adoperate i canali che meglio preferite, poco importa. Per me una visione non preconcetta per una serata sbarazzina la merita senz'altro.







venerdì 8 marzo 2013

Dieci ruoli per la (mia) donna ideale?

Approfitto dell'8 marzo per fare una delle cose che mi piacciono più al mondo: una classifica.
Ecco i dieci ruoli femminili che ho più amato al cinema, tributo ad altrettante intramontabili attrici.
E' un semplice omaggio, niente di più.
Come in tutte le classifiche probabilmente avrò tralasciato interpreti e interpretazioni più che meritevoli, mi aspetto mi segnaliate quelle che avreste voluto vedere in questa lista.
Cominciamo il gioco:

1 - Miss Kubelik/Shirley MacLaine ne L'appartamento (The Apartment, 1960) di Billy Wilder


2 - Tracy Lord/Katherine Hepburn in Scandalo a Filadelfia (The Philadelphia Story, 1940) di George Cukor


3 - Mabel Longhetti/Gena Rowlands in Una moglie (A Woman Under the Influence, 1974) di John Cassavetes


4 - Alex Greville/Glenda Jackson in Domenica maledetta domenica (Sunday Bloody Sunday, 1971) di John Schlesinger

5 - Karen Blixen/Meryl Streep in La mia Africa (Out of Africa, 1985) di Sidney Pollack

6 - Mamma Roma/Anna Magnani in Mamma Roma (id., 1962) di Pier Paolo Pasolini

7 - Ninotchka/Greta Garbo in Ninotchka (id., 1939) di Ernst Lubitsch

8 - La marchesa de Merteuil/Glenn Close in Le relazioni pericolose (Dangerous Liasons, 1988) di Stephen Frears

9 - Marge Gunderson/Frances McDormand in Fargo (id., 1996) di Joel Coen

10 - Chris MacNeil/Ellen Burstyn ne L'esorcista (The Exorcist, 1973) di William Friedkin